NF-104A |
"[...]Stavo volando a oltre Mach 2 quando accesi il razzo di coda, che aveva una spinta di 2.700 chilogrammi e bruciava una miscela per aviogetti di acqua ossigenata e cherosene. Stavo salendo con un ripido angolo di settanta gradi, e superavo fischiettando i 18.000 metri, quando il post-bruciatore si spense per la mancanza di ossigeno.
Fin qui tutto previsto.
Avevo poi stabilito di entrare in una leggera picchiata per consentire alle palette del motore, azionate dal flusso dell'aria, di girare e di raggiungere un numero di giri sufficiente a consentirne la riaccensione nell'atmosfera più densa delle quote inferiori, a 12.000 metri circa. Cosi spensi il motore e lasciai che il razzo mi portasse alla quota massima. Dovevo controllare la temperatura dell'ugello di scarico, perché anche a motore spento si sarebbe riscaldato a causa dell'angolo di salita particolarmente elevato.
Raggiunsi la quota massima di 31.200 metri.
L 'aereo completò la sua lunga traiettoria ad arco, quindi prese a cadere. Ma appena l'angolo d'incidenza raggiunse i ventotto gradi, ecco il pitch-up (1). Era già successo durante il volo del mattino, e per interrompere il fenomeno avevo usato i piccoli razzi direzionali del muso (2) spingendo quest'ultimo in giù senza alcun problema.
Ora, invece, quei maledetti razzi non ebbero nessun effetto.
Continuai a lasciare aperti gli sfiatatoi dell'acqua ossigenata, consumandola tutta nel tentativo di abbassare il muso, ma fu inutile. Quel maledetto muso restava puntato in alto, finché l'aereo cadde di piatto ed entro in vite. Scendevo in vite come un disco su un fonografo; ma non potevo picchiare leggermente per far scorrere l'aria attraverso la turbina del motore, e il numero dei giri per minuto andava riducendosi al minimo.
Mancava la pressione idraulica fornita dal motore, avendolo io rallentato, finché andò in bloccò a diecimila metri circa.
Avevo ormai perduto ogni speranza.
Più tardi avremmo appreso dal registratore di volo che prima di schiantarsi nel deserto l'aereo aveva compiuto quattordici giri di vite piatta da 31.200 metri.
Rimasi a bordo per tredici giri, poi tirai la maniglia d'espulsione. Detestavo perdere un velivolo tanto costoso, ma non avevo alternative. Tirata la maniglia d'espulsione, la mia tuta pressurizzata si gonfiò e la carica del razzo posta sotto il seggiolino sparò verso l'alto me e lui a centocinquanta chilometri all'ora. Un congegno automatico mi slacciò la cintura di sicurezza e contemporaneamente sganciò dal seggiolino l'anello del paracadute. Un 'altra piccola carica mi scaraventò fuori dal seggiolino. Cominciai a cadere accelerando; rotolavo a testa in giù verso terra quando vidi quel maledetto seggiolino che rotolava accanto a me impigliandosi nelle funi del paracadute. La carica del razzo aveva appiccato un piccolo incendio allo schienale, che bruciava ancora e che a sua volta stava appiccando il fuoco alle funi.
Cristo, proprio cosi.
Il paracadute si aprì con uno scrollone ma io sudavo freddo, avevo paura che le funi si fossero completamente bruciate. Aprendosi, il paracadute si liberò del seggiolino e io tirai il fiato, ma subito ricevetti un colpo in faccia. Mi aveva colpito il tubo di scarico arroventato del razzo.
Persi le forze e il coraggio.
Il colpo fu cosi forte che non riuscivo più a connettere ne a capire che cosa stesse succedendo. Mi fu strappato via il frontale del casco e vidi le stelle. Improvvisamente, un ruggito. Il materiale incendiato del sedile aveva dato fuoco alla guarnizione di gomma del casco che, a contatto con l'ossigeno puro, divampò come una torcia. Avevo la testa avvolta dalle fiamme e dal fumo. Non potevo respirare. Non riuscivo a vedere dall'occhio sinistro, colpito dal seggiolino. Stavo morendo asfissiato dal fumo, e boccheggiavo per riuscire a respirare. Infilai la mano nel casco attraverso l'apertura in cui una volta si trovava il frontale, cercando di raccogliere l'aria per respirarla. La mano guantata prese fuoco. Pensai: "Un bel modo di crepare!" Ero ancora collegato alla bomboletta d'ossigeno d'emergenza, che alimentava le fiamme. D'istinto alzai la visiera di quello che restava del mio casco, provocando automaticamente la chiusura dell'ossigeno. Ero molto vicino a terra e dal casco uscivano ancora fiamme, fumo e morchia. Sbattei duramente contro il terreno. Sentivo Andy che mi sorvolava a bassa quota, e al secondo passaggio riuscii a fargli segno col braccio. Poi mi alzai e mi tolsi l'imbracatura del paracadute, liberandomi dalle funi bruciacchiate con le mani nude. Spinsi i pulsanti di rilascio del collare che collegava la tuta pressurizzata al casco, e facendolo ruotare me lo tolsi.
E’ letteralmente impossibile raggiungere e sganciare da soli quei nottolini;
come diavolo ci sia riuscito, ancora non lo so.
Ricordo di aver guardato il casco con l 'unico occhio buono che mi restava e mi sembrò di essere di nuovo in guerra(3). Era coperto di sangue, bruciato e pesto. Stavo lì in piedi nel deserto, intontito, il casco agganciato sotto il braccio, la mano che mi faceva tanto male da sentirmi svenire. La faccia, invece, non mi doleva. Vidi correre verso di me un giovane; ero caduto a un paio di chilometri dalla strada numero sei, che collega Bishop col Mojave, e quel ragazzo mi aveva visto atterrare col paracadute, aveva fermato il camioncino e era venuto a offrire aiuto. Mi guardò e si girò dall'altra parte.
La mia faccia sembrava carne carbonizzata.
Gli domandai se avesse un coltello.
Tirò fuori un temperino, apri la lama e me lo porse. Gli spiegai: "Devo fare qualcosa alla mano. Non resisto oltre. Usai il temperino per tagliare il guanto foderato di gomma, ma vennero via anche due dita bruciate.
Il ragazzo vomitò.
Poi arrivò l'elicottero. Ricordo che gli infermieri mi corsero incontro. Domandai: "Potete fare qualcosa per la mia mano? Mi sembra di morire". Mi fecero un'iniezione di morfina attraverso la tuta pressurizzata. Non potevano togliermi la tuta perché dovevano aprire la lampo per tutta la lunghezza, poi dovevo fare
passare la testa fuori dal collare metallico ad anello, ma la mia faccia era in condizioni talmente penose che non ne ebbero il coraggio. In ospedale, fecero intervenire i pompieri per tentare di tagliare il collare con le cesoie. Finché mi venne in mente una cosa: "Cercate la sega, è nella tasca destra della mia tuta".
Era una piccola sega a nastro che terminava con due anelli; la portavo sempre con me anche durante le gite in montagna, e in men che non si dica tagliarono quel collare. Sotto l'effetto della morfina, cominciai ad assopirmi, solo a metà consapevole della presenza di Glennis, ma Stan Bear, il medico della base, continuava a scuotermi per tenermi sveglio. Stava sondando attraverso il sangue disseccato sopra l'occhio sinistro, dove mi ero fatto un taglio profondo. Il sangue era stato per cosi dire vetrificato dal calore dell'incendio e Doc continuava a frugarci dentro, chiedendomi se riuscissi a veder qualcosa.
Dissi di no.
Lo sentii mormorare: "Cristo, temo che lo abbia perso". Ma improvvisamente vidi un raggio di luce attraverso un forellino. Avvertii subito Doc, che sorrise: "Il sangue disseccato ti ha salvato la vista, amico".
Finalmente mi diede il permesso di svenire.
Mi misero una flebo; il giorno dopo ero cosi intontito che caddi addormentato nel bel mezzo di una frase mentre tentavo di raccontare al generale Branch che cosa mi fosse successo. Vennero a trovarmi Glennis, Andy, Bob Hoover e il pilota collaudatore Tony Le Vier, ma io si e no me ne rendevo conto. Continuavano a somministrarmi analgesici. Passarono vari giorni prima che mi accorgessi di quanto ero mal ridotto. La faccia era gonfia come un melone e abbrustolita da quella specie di fiamma ossidrica.
Il vecchio Stan Bear venne a sedersi accanto a me.
"Bene, Chuck, ho da darti qualche buona notizia e qualche altra cattiva. Cominciamo con le buone: i polmoni non hanno subito danni permanenti e anche l'occhio sembra star bene. Io, però, dovrò farti male, tanto quanto non ne hai mai provato in tutta la vita, per impedire che tu rimanga sfigurato per sempre.
E dovrò farlo ogni quattro giorni".
Rimasi all'ospedale un mese e ogni quattro giorni Doc mi grattava via la crosta che si stava formando, partendo dal centro della faccia e del collo. Era una nuova tecnica messa a punto per evitare che si formassero orribili cicatrici incrociate mentre la pelle cresceva sotto la crosta.
Funzionò benissimo.
Mi sono rimaste soltanto poche cicatrici sul collo, ma la faccia è guarita ed è rimasta perfettamente liscia. Tuttavia non avevo mai provato un dolore simile. Alla fine di tutto, però, avevo perduto soltanto la punta di due dita: tutto sommato, un prezzo abbastanza equo.[...]
(da "Vivere per volare" ed. Longanesi)
Dedicato ovviamente a chi ha fatto della sua vita un esempio di cialtronaggine, inutilità e codardia.
(1) Era un fenomeno normale nell'F104, il pitch-up.
Era dovuto alla posizione del piano di coda rispetto alle ali.
Ad una certa velocità, e con un certo angolo di attacco (superiore ai 20°), le ali mettevano "in ombra" il piano di coda che diveniva inservibile, provocando quello che viene chiamato un "superstallo". Se riscontrato al decollo, il pitch-up aveva come unica soluzione l'espulsione del pilota. ndr
(2) Questo modello di F-104 era dotato di RCS (Reaction Control System, una serie di ugelli posti nel muso e nelle estremità alari, molto simili a quelli usati dal LEM nelle missioni Apollo), che ne facilitava il controllo alle alte quote. ndr
(3) Chuck Yeager fu pilota di P-51 durante la seconda guerra mondiale, e venne abbattuto sopra la Francia. ndr
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